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Testo di Giampiero Lupatelli, economista territoriale | Pubblicato sul Corriere della Sera sabato 26 agosto 2023

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Una querelle (solo) sub-alpina?

Marco Bussone, amico carissimo e inesausto sostenitore della causa montana, approfittando dell’Intervento forse un po’ estivo (e dunque estemporaneo per antonomasia), di Carlo Ratti [“Apriamoci a Milano. La metropoli unica è l’utopia realizzabile”, La stampa 21 agosto 2023], ha voluto sollecitare un dibattito non di circostanza sul destino metropolitano di Torino e su una sua possibile – e non minore – prospettiva di capitale alpina [“Milano non è l’approdo, il nostro futuro è diventare una metropoli alpina”, La Stampa 22 agosto 2023] nel quale, sulle stesse colonne della Stampa, è già intervenuto con garbo e diplomazia Paolo Verri [“Alleati con Milano o le valli? Torino cresce se non ha paura”, La Stampa 23 agosto 2023].

L’amicizia con Marco (e con Paolo), oltre al rilievo oggettivo delle loro considerazioni, mi spingono a far circolare  tra una più vasta, ma sempre ristretta, cerchia di amici qualche riflessione – non certo originale ma forse neppure scontata –  su un tema, quello delle relazioni di integrazione territoriale, che mi è molto vicino, e che ben si presta ad essere declinato a partire da un luogo, Torino (e il Piemonte), che per molte ragioni mi è caro altrettanto quanto i luoghi della mia formazione e della mia vita professionale (di questi, in realtà, il Piemonte è parte significativa).

La mia riflessione è nata nella forma di lettera a Marco e si è poi rivolta ad altri amici piemontesi, prendendo (quasi) la forma ormai bizzarra di una lettera aperta, genere che ha tradizioni gloriose ma che certo non è più nelle corde di una stagione di comunicazioni istantanee ed ostentate nella quale la privacy della comunicazione epistolare è un ricordo di tempi passati; oltre che una virtù sopravvalutata, come sempre mi ricorda saggiamente mia figlia!

Qualche commento che ho ricevuto dagli amici coinvolti mi ha convinto a tornare ancora sui miei passi per provare a rendere ancora più esplicitamente il mio pensiero, espressione di uno sguardo e di una voce amichevole ma un po’ più esterna alla realtà torinese. Confortato in questo dalla consapevolezza (o almeno dalla speranza!) che questo dibattito su Torino, la Metropoli e le Alpi, può contribuire a riprendere e ad allargare le riflessioni sui possibili destini della condizione metropolitana nel suo rapporto con territori più vasti, rivolgendosi anche nei confronti di una platea un poco più estesa della cornice sub-alpina nella quale il dibattito si è generato.

La considerazione da cui parto in questa riflessione ha a che fare con il tema della ricerca di una “ottima dimensione territoriale” o di una “massa critica”, necessarie a innescare e a sostenere processi di sviluppo territoriale efficaci e duraturi. Ricerca che a me pare sempre un po’ come quella dell’araba fenice; perché “il meglio è nemico del bene” come vuole la saggezza proverbiale e perché, come Herbert Simon ci ha insegnato, la complessità non conosce decisioni ottime ma, al massimo, soddisfacenti.

 

Dove si posa lo sguardo delle città?

La ricerca delle “dimensioni ottime” di configurazione delle aggregazioni territoriali (e delle loro espressioni istituzionali) si è declinata per molto tempo – ma con risultati, ahimè alquanto modesti – nella esplorazione operata dai cultori delle scienze regionali riguardo al dominio più appropriato entro il quale un dato soggetto territoriale, una città, essenzialmente, poteva esercitare la propria iniziativa efficace in tempi di radicale modificazione degli assetti territoriali; dunque una ricerca rivolta al riconoscimento e alla progettazione di uno spazio metropolitano.

Più “modernamente” questa ricerca, consapevole della difficoltà di realizzare “il socialismo in un solo Paese” (o forse addirittura avvertita del cambio di paradigma necessario rispetto alla meccanica newtoniana che dominava ancora i modelli gravitazionali in voga nelle scienze regionali degli anni ’60 a favore di una comprensione “quantistica” del prevalere dei flussi sulla materia) si è rivolta ad interrogare il campo delle relazioni Inter urbane, alla ricerca delle più efficaci tra queste, per rafforzare posizionamento e probabilità di successo del proprio campione urbano.

Sono abbastanza vecchio da aver subito il fascino delle utopie regionaliste degli anni ‘60 che, con sensibilità avvertita, si misuravano sistematicamente con processi di crescita urbana che trascendevano con tutta evidenza la dimensione consolidata dei Comuni e, oltre a disegnare un proprio spazio “comprensoriale”, intrecciavano relazioni sistemiche alla scala regionale.

La mia Emilia-Romagna (per ovvie ragioni geografiche ma anche per ragioni storiche e culturali che rendevano più fragile il modello di una dimensione metropolitana centrata sull’influenza di una singola Capitale regionale) ha imboccato forse per prima la strada di un approccio dichiaratamente inter-urbano come fondamento quasi ontologico della dimensione regionale anche nel suo profilo istituzionale; una scelta illuminata dalla metafora delle reti e più concretamente suggerita dall’esperienza del Randstadt Holland.

Il tentativo del primo Piano Territoriale Regionale dell’Emilia-Romagna – che nel corso degli anni ’80 mi ha fortunosamente chiamato nella applicazione professionale a responsabilità maggiori della mia maturità – si misurava generosamente con questa prospettiva, con qualche fragilità retorica ma, ancor più, dovendo fare i conti con una complessità che avrebbe richiesto, per così dire, una logica “da insiemi sfocati”.

Giacomo Doglio obiettava argutamente a Osvaldo Piacentini interrogandolo su quale mai ragione avrebbe potuto spingere un cittadino imolese a salire su un treno per scendere a Reggio Emilia e cercare lì qualcosa che non aveva trovato a Bologna. Ammettendo anche che quel cittadino imolese a Reggio Emilia qualche cosa di interessante la avrebbe trovata (ci sono più cose sotto il cielo di quante non ne contempli la filosofia di un mondo ordinato gerarchicamente, raccontato da un anarchico!), restava l’evidenza di una realtà sistemica del tutto eterogenea nella rappresentazione di ciascuna delle sue parti.

Che il sistema regionale emiliano-romagnolo (il Sistema Metropolitano Policentrico, nella definizione del tempo, che suonava invero un po’ minacciosa e allusiva) visto da  Rimini non assomigliasse molto a quello che si sarebbe visto guardandolo da Piacenza rendeva fragile e velleitaria la pretesa di racchiudere (tutte) le relazioni significative di un qualsivoglia luogo (anche di una regione strutturata nella sua identità dall’ordinamento geometrico della presenza bimillenaria della via Emilia e dall’entro un (unico) confine; fragile e sicuramente destinata all’insuccesso nonostante l’inedito tentativo di istituire la nuova figura pianificatoria delle “politiche di confine”, una delle tante piccole invenzioni che l’acume organizzativo rima ancora che disciplinare di Ugo Baldini ci ha regalato.

Altre pianificazioni territoriali regionali – penso in particolare a quella lombarda con Paolo Rigamonti e a quella piemontese con Carlo Socco, entrambe in pieno spolvero negli anni ’80 – il problema di cosa accadesse (dovesse accadere) oltre il confine se lo ponevano allora con ancora minore attenzione, forse nella speranza del tutto irrealistica che in un approccio istituzionale differenziate e coerente, se ne facesse carico il livello di governo superiore, quello di un governo che nella intera estensione della storia repubblicana – con la sola commovente (patetica?) eccezione delle Proiezioni Territoriali del progetto ’80 – di gestire delle politiche territoriali mai aveva manifestato l’intenzione.

Fuori dal campo della pianificazione, maturava sempre in quegli anni anche la prima formulazione di una visione (prima ancora che di un progetto) di integrazione metropolitana tra Milano e Torino il cui acronimo MI-TO interpretava alla perfezione la leggerezza allusiva della proposta. Non c’era l’Alta Velocità ma la riflessione non era molto diversa da quella suggerita oggi da Carlo Ratti.

A quella battuta di arresto nella efficacia delle scienze regionali (e delle stesse culture politiche regionaliste) c’è chi ha reagito arruolando i propri argomenti sotto la barriera delle “geometrie variabili” con una ingenua (?) sottovalutazione della potenza ineludibile della dimensione istituzionale (e delle sue esigenze di permanenza e riconoscibilità) entro ogni progetto di sviluppo territoriale.

In direzione opposta – ma in qualche misura complementare – sono andate le indicazioni volte a introdurre elementi di “immaginazione geografica” nella base istituzionale delle politiche territoriali: quelle venute dai lavori della Fondazione Agnelli verso un minor numero di regioni, più grandi o, più recentemente, dalla Società Geografica Italiana nel progetto di più numerose regioni-province sostenuto da Sergio Conti, al quale anche io e Ugo Baldini abbiamo dato una mano.

 

La città a una dimensione?

C’è però una dimensione di indagine forse più radicale da affrontare per fare i conti con l’esigenza di costruire “geografie per le politiche” più efficaci. Concedetemi di prenderla da lontano.

Stanno per compiersi i 60 anni dalla pubblicazione di un libro che ha profondamente e intensamente modificato la vita di un numero enormemente maggiore di persone di quante (e non sono state pochissime) lo abbiano letto.

Il libro è “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse, punta di diamante di quel pensiero critico dei “Francofortesi” che, senza mai sottrarsi (del tutto, il più recente Habermas qualche sforzo lo ha fatto) dalla matrice negativa della dialettica hegeliana, ha saputo tuttavia offrire squarci di verità illuminanti sulla cultura e la politica del XX secolo.

La riflessione antropologica di Marcuse era assai più fondata e molto meno caricaturale della polemica contro il “pensiero unico” della economia neo-liberista che affanna (inutilmente) il dibattito pubblico dei giorni nostri. E tuttavia la direzione, plurale prima ancora che antagonista, della risposta all’appiattimento su una unica dimensione della esperienza umana sollecitata dalla riflessione marcusiana (ben oltre il vaso di Pandora che la pubblicazione ha scoperchiato a suo tempo) mi sembra fertile e attuale.

Anche per interrogarci sul futuro delle nostre città e dei nostri territori, evitando di appiattire anche questa su una sola dimensione: sia essa quella della città fordista che (forse) rimpiangiamo nella sua cruda semplicità e nel calore delle energie scatenate per la critica “militante” al suo assetto, sia quella dei borghi da cartolina contro cui si scagliano giustamente gli strali del nostro amico Antonio De Rossi,  sia anche la visione di una (sola) “metropoli alpina” che l’intervento di Marco propone.

Certo Torino può davvero diventare una metropoli alpina, ma per farlo in modo convincente e sostenibile nelle sue aspirazioni di eccellenza deve sicuramente essere capace di tematizzare la città, il suo animo, il suo percorso di rigenerazione identitaria e di community building  articolandolo “in più di una dimensione”.

Intanto assumendo quella di città della vita quotidiana (la Functional Urban Area delle politiche europee che la considerazione, fin esageratamente ottimista, di Beppe Dematteis sul valore analitico e interpretativo dei Sistemi Locali del Lavoro aveva efficacemente anticipato); rispetto a questa la geografia della Città Metropolitana mi sembra assai poco convincente: personalmente sono ancora legato, almeno sentimentalmente, alla stagione “comprensoriale” degli anni ‘70/80, quando la città metropolitana di Torino riconosceva una propria autonomia a Ivrea e al Canavese oltre che a Pinerolo (e forse anche Susa la avrebbe meritata).

Poi entro una dimensione regionale nella quale Torino dovrebbe forse essere più attenta a integrare – invece che a trascurare o ad assorbire senza metabolizzarle – le spinte innovative che vengono da altrove: penso soprattutto al Cuneese e al sistema Langhe-Roero-Monferrato, che tematizza nell’Appennino del gusto il contraltare (necessario) della cerchia alpina della Città.

Penso poi a una dimensione trans-regionale, che è insieme “alpina” e “padana”; una dimensione della quale la relazione Milano -Torino fatica ad essere più che un pallido e poco efficace surrogato. Una dimensione che si propone intanto con la evidenza del suo profilo ambientale (pensiamo alla vicenda delle risorse idriche!) ma poi anche – pur nella sua configurazione “a legame debole” di aggregazione megapolitana – come regione funzionale da arricchire di significati (e forse anche di istituzioni non direttamente politiche) per sostenere il confronto con sollecitazioni potenti.

Nonostante l’enorme valore evocativo e mediatico del territorio a cui si applica, La Conferenza delle Alpi è poca cosa senza una consapevolezza condivisa dai sistemi urbani con cui le Alpi dialogano, nella scena internazionale (dove però la concreta presenza di EUSALP mi pare poca cosa) ma forse ancora di più alla scala nazionale. In una realtà italiana del “Nord” ormai del tutto spresidiata dopo la caduta di ogni orizzonte da sindacalismo regionalista della Lega e nella proiezione sempre più “meridionalista”, almeno implicitamente, della nostra sinistra. La vicenda abbastanza infelice della Olimpiade Milano-Cortina ne è un segnale evidente.

 

Prospettive economiche per i nostri nipoti.

Dunque, a mio avviso l’aspirazione che Torino può praticare con ambizione e coraggio, non può che essere innanzitutto quella di smettere di pensare a se come “città a una dimensione”. Proprio lei che “città a una dimensione lo è stata forse più di ogni altra, nel sovrapporsi senza soluzione di continuità della dinastia industriale della fabbrica fordista alla dinastia militare della monarchia sabauda.

L’invito è invece quello ad alzare lo sguardo e ruotarlo in tutte le quattro dimensioni di uno spazio nel quale il tempo, soprattutto nella sua proiezione futura, è componente davvero essenziale. Alzare e ruotare lo sguardo per esplorare scenari e collocazioni plurali, con quanta libertà a Torino è consentita da una tradizione intellettuale raffinata e (nonostante tutto) cosmopolita.

Un cosmopolitismo incubato nella prima metà del secolo, ben leggibile nelle relazioni “americane” della Fiat (ma anche della Olivetti), quando la proiezione internazionale di Milano era ancora verso il centro-nord Europa di lingua tedesca.

Ed è stato forse proprio questo tratto “americano”, se posso esprimermi con qualche azzardo, ad aver differenziato maggiormente Torino da Milano negli anni della ricostruzione post-bellica; gli anni che hanno segnato il “passaggio di scala” della città, con una crescita demografica realizzatasi a ritmi quasi doppi di quelli delle altre città padane, che la hanno portata a tallonare Milano, distaccandosi dalla taglia che la collocava storicamente al livello delle altre “capitali regionali” come Bologna o Venezia.

Non è neppure fuori luogo richiamare l’insegna araldica – Torino Internazionale – sotto la quale Torino sio è schierata nella stagione – la sua più incerta ma forse anche la più felice – nella quale si è impegnata per dare vita al suo Pianoi Strategico che ancora oggi rimane il tentativo più importante praticato nel nostro Paese in questa direzione.

Una città internazionale e dunque una città plurale; plurale non (solo) nella struttura interna – quella della Civitas e quella dell’Urbs – che nessun principio monarchico potrà più rappresentare; plurale anche nelle relazioni che la connettono in varia guisa e con diversa intensità a mondi a lei esterni ma non per questo estranei.

Plurale non solo per la molteplicità delle relazioni ma anche in ragione delle diverse fisionomie che le diverse relazioni richiedono alla città di adottare: nella economia, nella produzione e nei consumi culturali, nelle risposte alla transizione ecologica. E le relazioni proposte dalla Montagna alpina, proiettate sulla scala di una più vasta piattaforma territoriale, sono sicuramente ricche di valori e di potenziale da interrogare con curiosità e intelligenza!

Una nota in chiusura, per tornare alla cronaca da cui siamo partiti.

Nell’eco che la proposta di Carlo Ratti ha suscitato, positivamente, non sono mancate espressioni di un certo provincialismo savoiardo che, proiettandola ad altri lidi, rurali, ha snobbato la grande innovazione territoriale che ha investito il Piemonte meridionale al volgere del secolo. Contrapponendo ancora una volta il (nostalgico) rilancio dell’asse urbano e industriale (fragilissimo, se lo si misura con il metro del nord est!) che si snoda attorno alla connessione Torino Milano alla novità (ritenuta evidentemente effimera e finanche frivola) che il Piemonte meridionale ha costruito nella stagione post-fordista del cibo, del benessere e della salute attorno al cuneese e al sistema Langhe Roero Monferrato.

Qualcuno ha prestato attenzione all’acquisto da parte di Exor per una spesa di 2,6 miliardi di euro del 15% del pacchetto azionario di Philips (il principale produttore di sistemi bio-medicali del mondo)? Qualcuno si è posto la domanda se l’acume finanziario di John Ellkan non incorpori una visione strategica che interpreta il futuro della meccanica non sul fronte obsoleto dell’automobile ma su quello della salute? Qualcuno ha colto in questo l’eco delle proiezioni immaginifiche (ma non fantastiche) con le quali Jaques Attalì, nel cuore della pandemia, pronosticava che di qui a 10 anni la composizione del Valore Aggiunto dei Paesi più sviluppati sarebbe stato rappresentato per 2/3 dalla industria del benessere e della salute?

Certo, per prima cosa, bisognerebbe preoccuparsi di essere – di qui a dieci anni – ancora nel novero dei paesi a economia avanzata cosa che, ad essere sinceri con noi stessi, non è davvero scontata. Per esserlo, per esserci, l’intera nazione ha molto bisogno di una Torino originale, lungimirante e coraggiosa che interpreti le sfide di questo millennio con tutta l’intelligenza che serve,